JAMILA HASSOUNE

Per una ingegneria del racconto

Jamila Hassoune ci ha parlato del suo rapporto con i libri, della libreria di Marrakech, in Marocco, che lei ha fondato

Fondare librerie, organizzare biblioteche viaggianti. Nell’intervista-lezione Jamila Hassoune ci parla della sua attività di libraria a Marrakech. Ci sono state altre esperienze simili, come quella di John Wood, importante dirigente di Microsoft che si licenziò dalla società per diventare librario ambulante in Nepal.

Jamila Houssone

Ci racconta la sua esperienza di libraia in Marocco, la sua esistenza legata al libro, le iniziative che ha attuato per difenderne il valore, trasmettere conoscenze e promuovere lo sviluppo di una mentalità critica che passa “attraverso i tempi lenti e il respiro che dà la lettura”.

La storia di Jamila Hassoune è in qualche modo esemplare, con alcune varianti. Primogenita di sei figli (quattro femmine e due maschi) nasce a Marrakech. Il padre è maestro elementare e la madre analfabeta, una famiglia tradizionale in cui l’uomo rappresenta l’autorità che si trasferisce ai figli maschi, che hanno piena libertà mentre le donne devono in silenzio gestire anche tra mille difficoltà la casa e accudire a tutti.

Ma in casa ci sono libri ovunque e questo sarà il suo nutrimento. Per una serie di coincidenze il padre lasciò il suo posto e aprì una libreria, una delle due esistenti in città.

I libri, anche nella tutela in cui deve vivere, sono però per Jamila, la finestra sul mondo, la sua libertà, la sua aspirazione. In questo la famiglia non era da meno, soprattutto quando tutta insieme decide di vendere l’abitazione acquistata con un mutuo per compare una libreria, che potesse dar lavoro ad alcuni suoi componenti.

Inizia così la grande avventura di Jamila Hassoune, che aveva terminato le scuole superiori e dopo lavoretti diversi, si fermò nella sua libreria. Aveva un grande obiettivo: come far capire a chi era distante, non solo culturalmente, ma anche fisicamente e territorialmente dai libri, l’importanza della carta stampata, delle parole, dell’apprendimento. Tutto il libro è poi la cronaca di questa avventura delle carovane dei libri, che si spingevano nei più remoti villaggi dell’Alto Atlante (le montagne del Marocco) coinvolgendo tutti gli abitanti, bimbi e donne, in una scuola popolare, in cui tutti potevano trovare uno stimolo, un interesse.

Il libro è diviso, dopo le tre presentazioni, in due parti: nella prima è Jamila che racconta la sua vita e la sua ricerca di stare con la libreria tradizionale, ma soprattutto con quella itinerante, al passo con i tempi per suscitare interesse e attrattive più culturali che commerciali.

La seconda parte è una lunga intervista, curata da Santina Mobiglia, che aiuta a capire attraverso gli occhi di Jamila Hassoune, cosa è e cosa è stato il Marocco: i periodi bui degli arresti e delle carcerazioni, chiamati “anni di piombo” sino alla nuova Carta Costituzionale, dai tentativi di islamizzazione, con l’abolizione del bilinguismo e il riconoscimento dell’arabo come lingua ufficiale e l’abbandono del francese. Le conseguenze di questa norma sono state deleterie, anche per il mondo delle librerie e della cultura che non potevano più utilizzare le pubblicazioni, molto più numerose in francese rispetto all’arabo, anche negli studi universitari.

Jamila Hassoune si racconta in prima persona, con sincera semplicità: la sua giovinezza chiusa tra le mura di casa secondo le abitudini locali e la libertà che trovava nei libri, la convinzione che fosse necessario ‘mostrare i libri’ come posizione culturale e politica contro le misure repressive e dittatoriali che li fanno nascondere, la forza che le viene nei rapporti sociali dalla lettura e dal sapere. Sembra quindi una logica conseguenza che Jamila fondi una libreria e poi reinventi questo mestiere muovendosi lei verso i potenziali lettori, soprattutto verso le aree più deprivate del paese, nelle zone interne dove è difficile anche mantenere in vita una scuola, verso l’Alto Atlante o il sud del Marocco. Nasce così l’attività esaltante delle Carovane civiche e delle Carovane del libro per arrivare fino a coloro che restano esclusi dal libro e dalla cultura, in modo semplice, con la sua macchina carica di libri, ma importante perché coinvolge scuole, associazioni, abitanti del luogo che raggiunge e delle città, gente di cultura e semplici cittadini. Uno spazio culturale mobile, uno spazio plurale. L’iniziativa la rende famosa e le procura il sostegno di molti in Marocco e all’estero, a partire da Fatima Mernissi.

La seconda parte di questo testo è una lunga conversazione con Santina Mobiglia sul Marocco dei nostri giorni, sul suo impegno nel quadro di una società in rapido cambiamento in cui prevalgono i giovani, sulla condizione femminile. Muovendosi ormai anche all’estero per partecipare ad appuntamenti internazionali e far conoscere le iniziative civiche e culturali del Marocco, trova molto importante anche far conoscere alle comunità di immigrati dal suo paese, “spesso ferme all’immagine del paese che hanno lasciato”, la nuova realtà del Marocco ed in generale dare agli europei elementi per superare “la visione superficiale e stereotipa del mondo arabo e mussulmano”.

Molte immagini documentano nel testo una storia ed un impegno degno di essere raccontati.

 

Parla Jamila:

“La mia famiglia è originaria di un paesino del Sud del Marocco, vicino al confine con l’Algeria. I miei genitori sono arrivati a Marrakech giusto due mesi prima che io nascessi. Arrivati qui non se ne sono più voluti andare. Marrakech, per quanto anche negli ultimi rapporti continui a risultare la città più povera, è un bel posto dove vivere.

A volte penso che questo mio desiderio di riscatto, per me e per la gente nata con meno possibilità, venga da lì. Nel paesino dei miei genitori i libri erano “rari come la pioggia”. La mia poi è una famiglia conservatrice. Infatti da adolescente non uscivo, non andavo nei locali. Però nella casa della mia infanzia c’era qualcosa di buono: la biblioteca. Avevamo molti libri. E io passavo tutto il mio tempo a leggere. Così, pur non potendo muovermi, ho presto maturato uno spirito libero. Anche se non sono andata all’università ho acquisito un bagaglio culturale di tutto rispetto, i libri sono stati la mia scuola, infatti anche da ragazzina ero sempre “più avanti” rispetto ai miei compagni, alle mie compagne e alla mia famiglia, perché già a 12, a 14 anni leggevo molte cose, anche libri importanti, ho letto Simone de Beauvoir che ero poco più di una bambina. Insomma non uscivo, non avevo grandi opportunità di distrazione; e però avevo tanti libri a casa.

Nel 1975, mio padre, che faceva l’insegnante, è diventato libraio. Così quando sono diventata grande, data anche la disoccupazione, la difficoltà di trovare un lavoro, si è pensato che io avrei potuto dirigere un’altra libreria.

 

Nel 1994 ho cominciato con un mio negozio di libri nella zona dell’Università di Marrakech. Il primo anno è stato molto difficile vendere libri così ho cominciato a chiedermi perché gli studenti non venissero in libreria. E’ stato parlando con alcuni giovani arrivati dalla campagna o dal deserto -la maggior parte degli studenti che vanno all’Università a Marrakesh vengono da lì- che ho capito che oltre al problema economico (non hanno soldi, ma davvero) scontano anche un gap culturale, nel senso che anche se hanno un diploma, non hanno una grande cultura. Del resto nei loro piccoli paesi non ci sono librerie e il sistema dell’istruzione è molto carente.

Di qui l’idea: come far arrivare i libri in queste campagne? Come aiutare questi giovani, come dare loro le stesse opportunità dei giovani di città?

I libri sono facili da portare in giro, basto io con la mia macchina. Così ho iniziato a organizzarmi e nel 1996 ho fatto tre viaggi in un mese. Ho iniziato con le scuole, superiori ed elementari. Ho fatto delle esposizioni e con l’occasione ho discusso con i giovani. Nel 1999 ho condotto un’inchiesta su 1000 giovani: che genere di libri vogliono leggere. Io penso che offrire l’opportunità di informarsi, di pensare, di discutere, confrontarsi abbia a che fare con la cittadinanza. Considero il lavoro che ho svolto durante questi anni un tentativo di democratizzare la conoscenza.

 

Due anni fa ho iniziato a interessarmi di internet. Ovviamente gli studenti, i giovani non hanno soldi per comprarsi il computer, ma ci sono i cyber-café, che si stanno rivelando un fenomeno straordinario. Ci sono cyber-café vicino alla libreria, vicino all’università e tutti questi giovani, ragazzi e ragazze, stanno in questi posti anche fino alle undici di sera, che è molto tardi, soprattutto per le ragazze. Le famiglie che non lasciano le figlie andare in un locale la sera, permettono però loro di fermarsi fino a tardi in un internet cafè. Ho così scoperto che questi luoghi sono anche un piccolo laboratorio di relazioni nuove e diverse, soprattutto tra ragazzi e ragazze. Se fuori prevalgono ancora varie forme di discriminazione, dovute alla sanzione sociale, ma soprattutto all’educazione che i maschi ricevono dalle loro madri, negli internet café ragazzi e ragazze si trattano alla pari, davanti a quello schermo sono uguali, si aiutano. Del resto è andata così anche nella mia famiglia: io so lavare, so cucinare, so fare un po’ tutto, mi piace anche. Mio fratello invece non fa niente, nessuno gliel’ha mai chiesto”.